Marco Pagani si racconta così: Ho cominciato con i fustini del detersivo, i giornali accatastati, i bicchieri. Ero bambino e suonavo tutto, proprio tutto. Poi la batteria, un basso elettrico e la mia prima chitarra; una voce che da allora mi accompagna, con cui dialogo, respiro, creo. Sono un musicista, per amore, per bisogno. Suono in Teatro, tra i libri delle biblioteche, nei cortili nelle notti d’estate. Suono ovunque perchè non c’è spazio che la musica non possa trasformare. Amo l’incontro con il pubblico, quel dialogo sottile che nasce tra le note e i pensieri. Uno scambio magico, ogni volta unico. Che musica suono? Non so mai rispondere a questa domanda, di solito dico “faccio musica, io so parlare così”, e basta. Ravel, Debussy, Pat Metheny, Ralph Towner, Michael Hedges, Frank Sinatra, Miles Davis, Genesis... Loro i miei primi Maestri che mi hanno indicato una strada e regalato un biglietto per partire... e io, sono ancora in viaggio... Benvenuto/a nel mio mondo.
2013 Works Andrea Pedrinelli – Giornalista: Non c’è solo un’evidente tecnica, nell’album di Marco Pagani “Fly Away”. E’ chiaro che questo disco (concepito, ci pare, anche come biglietto da visita musicale) ha pure la funzione di sottolineare una raggiunta maturità di tocco e, più in generale, esecutiva: tutto ciò però varrebbe poco se non vi fosse un’anima, ad innervare composizioni ed interpretazioni. L’ascolto di “Fly Away”, e non è cosa ovvia, si sofferma soprattutto infatti sui brani maggiormente incisivi dal punto di vista melodico. Quelli cioè che, qualora si trattasse di mera tecnica o virtuosismo fine a se stesso, avrebbero meno chance di restare in mente. Ed invece sono proprio i vari “Without shoes”, “Three words” e “Nina”, assieme alle due deliziose cover di Andrew e Kern (pensate quasi a miniatura pittorica), a comunicare. E comunicano, oltre alla bravura chitarristica, un mondo interiore che all’esigenza di esprimersi abbina la conoscenza di strade, idee, colori per farlo. La tecnica pura, quella monta in primo piano nei pezzi più ritmati, specie i due iniziali: e forse l’unica pecca dell’album è averli tenuti troppo lunghi, seguendo una peraltro inevitabile voglia (tipica, del musicista) di sviluppare i propri ritmi e partiture: una voglia che però, nei pezzi più vivaci, risulta a nostro parere sempre ed inevitabilmente più appetibile dal vivo che non su disco. Ma in fondo queste, trattandosi di un album-biglietto da visita, sono quisquilie. Nella misura in cui “Fly away” assolve in toto al proprio compito di darci un saggio delle capacità dell’artista, una dimostrazione delle sue chiavi compositive e melodiche non banali, il sunto di un mondo emotivo che dalle corde toccate da Pagani arriva dentro a chi ascolta. Sia nell’eventuale – e comunque mai scontata - gradevolezza dell’ascolto distratto, sia nella profondità toccante dell’ascolto attento dell’album.
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